I dolorosi fatti di Parigi hanno risvegliato nei cittadini europei un senso di unità e di appartenenza che molto spesso è mancato nel vecchio continente, vuoi per la ritrosia di alcune culture, ancora arroccate in un anacronistico senso di conservatorismo, vuoi per le stesse strutture dell’Unione, poco adatte a raccogliere una responsabilità comune che si riduce a politiche economiche frammentate e spesso legate a contingenze, e per questo percepite come distanti dai cittadini.
Questo riscoperto senso di unità ed appartenenza ad un sentire comune si è manifestato in difesa di sacrosanti diritti, come quello di libertà e di stampa, ed ha trovato, manco a dirlo, uno slogan che, da Atene a Lisbona, ha suggellato questa nuova presa di coscienza dei più di quattrocento milioni di europei e non solo. “Je suis Charlie” ha campeggiato ovunque ed è stato sulla bocca di tutti coloro che si sono indignati per un atto criminale, peraltro non dissimile dai tanti che accadono quotidianamente in Africa o nel mondo e ai quali ci siamo abituati tanto da non ritenere necessario scendere in piazza in modo così roboante come successo a Parigi.
Sia chiaro, in nome della libertà di espressione non mi sento di criticare coloro che sono scesi in piazza affermando si “essere” Charlie: ognuno ha il diritto di “sentirsi” chi vuole, tanto più in Europa; né tanto meno voglio affermare di non provare pietà umana per quei giornalisti, gendarmi e cittadini uccisi da folli invasati. Gli attentati di Parigi sono stati atti criminali e nessuno, in una società civile, deve pagare con la vita i propri crimini, né tanto meno farsi giustizia da sé se si ritiene offeso: per questo ci sono la legge e i tribunali.
Tuttavia io “non mi sento” Charlie, perché “non sono” Charlie e “non voglio esserlo”. E questo perché non mi appartiene il linguaggio di Charlie Hebdo; non mi appartiene l’idea di poter fare satira senza misura e ad ogni costo (e sappiamo purtroppo oggi quale costo).
E’ più forte di me, ma, coerentemente, devo ribadire quello che sentivo in tempi non sospetti (non così violenti almeno) per la satira di Charlie Hebdo sul mondo islamico: un fastidio, un senso di disagio, la sensazione irrazionale che non fosse giusto, allora come oggi, esprimersi pesantemente su certi argomenti, giustificandosi con un sacrosanto e apodittico diritto di satira.
Ho provato più volte, in questa settimana, a capire il perché quei contenuti mi urtavano allora, così come oggi mi appare stridente la frase “Je suis Charlie” un po’ dappertutto; il perché del mio imbarazzo di occidentale cristiano per una sedicente satira che colpiva (e promette purtroppo di colpire) prima di tutto una civiltà (perché tale finiva poi con l’essere percepito da molti islamici il bersaglio dei vignettisti) prima ancora che una religione o un fanatismo.
Diciamocelo fuori dai denti: sono oggettivamente differenti la cultura occidentale e quella del mondo islamico, ma queste culture si trovano oggi a dover necessariamente affrontare una convivenza difficile, eppure mai come oggi necessaria.
Un rispetto reciproco, come punto di partenza, non può che agevolare questa convivenza. Il capire che quello che per un occidentale è satira può essere percepito come blasfemo da molte persone, anche se non si fanno giustizia con un kalashnikov, è un punto importante per capire fino a che punto è lecito moralmente spingersi con il contenuto di uno scritto o di una vignetta.
Sarei semplicista, se non utopista, se mi limitassi ad affermare che chi vuole rispetto deve innanzitutto portarlo al prossimo: nessuno, lo ripeto, deve farsi giustizia da sé con atti di terrorismo, ed è per questo che sono “avec” Charlie; ma, di contro, credo sia una strada senza uscita identificarsi, e così sostenere indirettamente, chi, forse abusando di una libertà come quella di satira, o non misurandone i contenuti, si è volutamente escluso da ogni qualsivoglia possibilità di stabilire un confronto civile e costruttivo con una cultura diversa, e con la quale, lo ripeto, si deve e si dovrà sempre più convivere.
E’ per questo che “Je ne suis pas Charlie”.
Ciao, concordo completamente. Tuttavia il buon senso occidentale con cui si rileva l’eccesso in certa satira che diventa offensiva deve avere un contrappeso molto chiaro, da parte di tutte le società musulmane, nel sacrosanto principio che non si può uccidere mai nessuno per questo. E deve essere detto con forza e con coraggio. La sensazione è invece che, per quanto la stragrande maggioranza dei musulmani si dissoci, in primo luogo per buonsenso, dalle efferatezze compiute a Parigi e non solo ci siano sospesi, almeno sul piano teorico, troppi se e troppi ma piuttosto inquietanti. Il problema è se una società in fondo da più peso ad un simbolo, per quanto importante, ad esempio un testo sacro, o alla vita di ogni singola persona. Penso che il Cristianesimo abbia sostanzialmente acquisito, nel corso della storia, con forza questo valore. L’Islam non sono convinto. Per l’Islam è sostanzialmente ancora più importante e da rispettare il simbolo